Di Laura Schirru e Marco Olivetti
Durante la pandemia il mondo non si è fermato: si sono fermate molte delle cose che siamo abituati a fare e che rendono piacevole la nostra vita, l’aperitivo con gli amici o la proiezione di un film al cinema, ma – con le dovute eccezioni – non abbiamo smesso di lavorare.
Così, in questo modo violento, il telelavoro è diventato quotidiano in tutto il mondo, non più limitato a figure come creativi e autonomi, ma esteso a milioni di persone impiegate nei settori più disparati.
Finita l’emergenza pandemica, tolte le restrizioni, i dati dell’osservatorio smart working del Politecnico di Milano ci mostrano che lo scorso anno in Italia il lavoro da remoto ha continuato a essere utilizzato in modo consistente da circa 3,6 milioni di persone.
Le persone continuano ad apprezzare il telelavoro, che a fronte di grossi cambiamenti nell’organizzazione del processo produttivo, per molte imprese è diventato lavoro agile o all’italiana smart working.
Quello che è avvenuto non è un mero cambiamento semantico ma molto di più: infatti, il telelavoro si riferisce semplicemente alla possibilità di poter svolgere la propria mansione da un luogo diverso dall’ufficio, mentre il lavoro agile è un approccio alla gestione del lavoro che mette al centro flessibilità e autonomia del lavoratore, senza stabilire orari e luoghi precisi per l’attività, e che usa come riferimento per la valutazione delle performance lavorative esclusivamente il raggiungimento di obiettivi.
Attraverso lo smart working il lavoratore ha grande libertà nell’organizzare le proprie attività e, come dimostrato dai dati del report Istat “Situazione e prospettive delle imprese dopo l’emergenza sanitaria Covid – 19”, mantiene elevate performance lavorative.
Tra gli “aspetti collaterali” più graditi dello smart working ci sono innanzitutto il risparmio di tempo e denaro che il lavoratore ottiene non dovendosi recare fisicamente ogni mattina sul luogo di lavoro (secondo lo studio sull’impatto ambientale dello smart working svolto tra Roma, Torino, Bologna e Trento nel quadriennio 2015-2018 dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), a Roma annualmente ogni persona trascorre nel traffico ben 82 ore). Per l’osservatorio del Politecnico di Milano, il risparmio netto per chi pratica il lavoro agile con due giorni a settimana di smart working (l’esistenza di giorni fissi in cui andare al lavoro, come vedremo, rende controverso l’utilizzo del termine stesso) è in media 600 euro l’anno.
Non possiamo poi dimenticare che il lavoro agile, sempre secondo i dati della ricerca ENEA, evita l’emissione di circa 600 chilogrammi di anidride carbonica all’anno per lavoratore (-40%) e, ogni giorno di lavoro a distanza permetterebbe di evitare 6 kg di emissioni dirette in atmosfera di CO2 e risparmiare 85 Megajoule (MJ) di carburante pro capite.
Infine, non sono da sottovalutare tutte le implicazioni, anche culturali, derivanti dalla flessibilità oraria, come una maggiore partecipazione alla vita domestica da parte di tutti i membri della famiglia, più condivisione delle responsabilità genitoriali e, in generale, un migliore benessere individuale generato da una soddisfacente conciliazione dei tempi vita – lavoro.
Gli effetti negativi del lavoro agile, in realtà, sono in parte conseguenze di problemi nell’organizzazione lavorativa riscontrabili anche in presenza (es. aumento dello stress da parte del lavoratore), in parte frutto dell’emersione di problemi psicologici pregressi o emersi a causa del confinamento imposto dal lockdown (isolamento sociale).
Anche la sola lettura di questi dati, quindi, dovrebbe portare a politiche che incentivano l’utilizzo del lavoro agile.
Benché con lo smart working è divenuto chiaro che luogo di vita e luogo di lavoro non sono necessariamente sovrapponibili e dunque, che è possibile non essere costretti a vivere nello stesso luogo in cui si lavora, secondo dati raccolti da Randstad Research nel 2022, dei potenziali 8 milioni lavoratori da remoto in Italia, solo il 37,2% lavora effettivamente in un luogo diverso dalla sede aziendale.
Purtroppo, come emerge dalla stessa indagine Randstad, l’Italia è l’unico Paese dove lo smart working non è cresciuto con costanza: altrove in Europa la sua ascesa pare inarrestabile, con picchi in Irlanda (dal 7% del 2019 al 32% del 2021) e Belgio (dal 6,9% al 26,2%).
Sul perché, possiamo avanzare solo qualche ipotesi: per l’Osservatorio PMI-Cerved del 2020, in Italia, le PMI rappresentano il 99,9% delle imprese e danno lavoro al 64% degli occupati mentre, le grandi imprese, che sono quelle dove più si pratica il lavoro agile, rappresentano solo lo 0,1% e occupano il 36% degli addetti. Se poi aggiungiamo che il nostro paese è piuttosto allergico all’innovazione, ha una produttività stagnante da circa venti anni e vi è una diffusa cultura aziendale focalizzata sul controllo più che sulla valutazione delle performance, è chiaro capire perché lo smart working sta arretrando invece di avanzare.
Ma, se dal lato delle imprese vi è una certa rigidità nel voler caparbiamente procedere con il business as usual, cercando quindi di mettere in cantina il lavoro agile, i lavoratori e le lavoratrici invece hanno pochi dubbi: secondo una ricerca condotta a maggio 2021 su circa 1.000 dipendenti statunitensi realizzata da Morning Consultant per Bloomberg, il 39% dei lavoratori prenderebbe seriamente in considerazione l’eventualità di licenziarsi se la propria azienda non si dimostrasse flessibile sul fronte del lavoro agile. Questa è una questione soprattutto generazionale, infatti, la percentuale sale al 49% tra Millennials e GenZ.
Ad oggi quindi per cercare di tenere insieme questo conflitto assistiamo a un’implementazione incompleta del lavoro agile, data dall’imposizione di due o tre giorni in presenza in ufficio senza che l’effettivo esserci del dipendente sia in alcun modo correlato con le sue esigenze, i suoi bisogni e con il suo rendimento in termini di risultati. Soprattutto, l’imposizione di alcuni giorni fissi in presenza non permette al lavoratore di vivere dove preferisce, se lo vuole di spostarsi da nord a sud, di rimanere in città, o di andare a vivere ai piedi delle montagne.
Come giustamente sottolinea Elena Militello in “South Working. Per un futuro sostenibile del lavoro agile in Italia” «i territori oggi meno prosperosi si trovano a dover affrontare scenari macroeconomici sempre più complessi mentre subiscono una continua, spontanea emorragia di capitale umano e un declino demografico […]».
Se è vero che le città hanno da sempre attirato moltissimi lavoratori e lavoratrici, la digitalizzazione dell’economia, combinata ad un generale ripensamento delle proprie vite e delle proprie priorità (cio che Anthony Klotz, docente della Texas A&M University ha definito “epifanie da pandemia”) ha reso immaginabile una vita diversa. Una vita in cui si può decidere che aria respirare o come spendere i propri soldi, magari potendosi finalmente permettere una casa con un ammontare con cui in un grande centro non ci si potrebbe neppure acquistare una cantina.
Quello che Militello e Mirabile mettono ben in evidenza nel libro è sia la correlazione tra la possibilità del “tornare a casa” e il lavoro agile (che sia davvero tale, ovvero senza limiti o imposizioni di giorni in presenza) che la dimensione dell’effetto positivo, sia in termini meramente economici che in termini culturali, della presenza degli smartworker al sud e nelle aree interne e marginali del Paese.
Per concludere, non solo, come dimostrato da Istat, il lavoro agile aumenta la produttività, l’efficienza nella gestione dei processi produttivi, gli investimenti in formazione del personale, l’adozione di nuove tecnologie e il benessere del personale (oltre a diminuire i costi operativi) ma se sostenuto da policy adeguate, condurrebbe ad una diminuzione degli squilibri economici e territoriali e, in conclusione, ad un futuro più sostenibile per tutti e tutte.